Quando innovare è una questione di cultura
In uno dei miei archivi dimenticati ho ripescato un report del 2013.
Racconta l’intervento all’Università di Padova, del professor Lino Pertile, allora Direttore del Centro per gli studi rinascimentali dell’Harvard University a Firenze, sul tema “Università e Impresa, l’esperienza USA e la sua replicabilità in Italia”.
Ok – direte voi – “ma sono passati 4 anni!”
Eppure il tema non è mai stato tanto attuale.
A suggerirlo non sono io ma Luca De Biase, responsabile di Nòva24 che, durante una lezione al Master in Comunicazione delle Scienze che sto frequentando in questi mesi, ha riacceso in me il ricordo di quel dibattito al palazzo del Bo con queste parole:
“affinché il sistema economico resti nel mercato è necessario che innovi.”
“Devi avere una mentalità connessa con il mondo dell’innovazione.
Bisogna costruire uno spazio culturale per creare gli stimoli e avviare una nuova avventura.
Esplorare qualcosa che possa essere cibo per la mente dell’innovatore.”
Secondo voi lo si fa nelle nostre università?
E nella nostre aziende?
Vi lascio alle parole di Pertile, che ho arrangiato a modo di intervista, per rendere il tutto più snello e, spero, più chiaro.
Buona lettura.
23 Aprile 2013.
Fuori dal mondo e non “student friendly”: università italiana (e imprese) al palo. Ma il problema è culturale.
Intervista a Lino Pertile, Direttore del Centro per gli studi rinascimentali dell’Harvard University a Firenze
Il modello universitario americano è replicabile in Italia?A questa domanda tenta di rispondere un prof di Lingue e Letterature Romanze, che oggi, all’Archivio Antico del Palazzo del Bo, ci ha spiegato come funziona negli Stati Uniti il legame Università e Impresa.
Strano che un docente di discipline umanistiche porti un’esperienza forse più da economista.
Del resto è lui stesso a dirlo:
“Io porto l’esperienza di un professore di letteratura e non di un imprenditore.”
Di un professore che, tuttavia, ha vissuto e respirato per molti anni l’aria delle università americane.
Lino Pertile è stato professore di Lingue e Letterature Romanze ad Harvard e ha trascorso la maggior parte della sua vita accademica all’estero.
“Alumnus” dell’Università di Padova, è il tipico cervello in fuga, come si direbbe oggi.
Ma a quel tempo questa tristissima “moda” non era ancora comparsa sulla scena italiana.
Prima in Inghilterra (nel ’68), poi negli Stati Uniti, il professor Pertile ha visto e sperimentato su se stesso le differenze tra mondo universitario americano e italiano.
Realtà abissalmente diverse. Vediamo perché.
Cosa rende, in America, il rapporto università e imprenditoria un modello che funziona?
Innanzitutto, l’insuccesso di una virtuosa collaborazione tra università e impresa non dipende stricto sensu dall’università, ma dalla società e dalla cultura del paese che forma le proprie risorse più importanti: gli studenti, i lavoratori, le persone.
L’educazione dei figli in America è un investimento.
L’università in Americana è concepita, in un certo senso, come un’impresa il cui “mercato” è costituito dalle famiglie che mandano i loro figli all’università.
D’altra parte la famiglia americana è cointeressata all’università perché ne paga i servizi e investe – azzardo a dire – quasi senza rischi, sul futuro dei propri figli.
A volte bisogna metterla in soldoni e capire che se paghi, allora hai qualità e se offri qualità è giusto pagarla.
L’università e la formazione negli States sono considerate una risorsa e non un vuoto a perdere.
Se il cittadino è cointeressato al buon funzionamento dell’università, e lo si rende cointeressato anche attraverso il pagamento di rette alte, allora l’università funziona bene, crea valore, crea professionalità.
Mentre il sistema italiano non è “coinvolgente”, né particolarmente “student friendly”…
Esatto.
Del resto, che un’università americana venga riformata dallo stato è assolutamente inconcepibile.
Le università sono indipendenti e questo vale anche per le università statali.
Da una ventina d’anni ormai negli Stati Uniti è forte la consapevolezza che il mondo sta cambiando in modo radicale per due fenomeni: la rivoluzione informatica e la globalizzazione.
La domanda che le università americane si son poste è cosa debba fare l’università per stare tecnicamente al passo coi tempi e assumere il ruolo di leader in quest’ambito.
Da diversi anni anche in America si parla di crisi delle “Humanities”, le discipline umanistiche.
Il pensiero postmoderno ha rivoluzionato il canone e le metodologie tradizionali dell’approccio alla storia, all’arte, alla letteratura con conseguenze che, per le discipline umanistiche, non sono state positive.
E, in cauda venenum, si è sovrapposto a tutto ciò la crisi economica che affligge anche gli Stati Uniti.
Questi i fatti.
Le lettere hanno perso terreno, hanno visto una progressiva riduzione delle iscrizioni, non hanno più finanziamenti. Quindi?
Si cerca di sostenerle, e proteggerle ma anche in risposta alle sollecitazioni provenienti pure dalle famiglie degli studenti, vengono privilegiati investimenti che “ripagano immediatamente” e cioè quelli scientifico-tecnologici, che hanno ricadute tecnologiche immediate e risolvono problemi concreti.
Negli States esiste un rapporto abbastanza stretto tra università, ricerca scientifica, applicazioni tecnologiche e mercato del lavoro.
La crisi delle Humanities è dovuta non tanto a cambiamenti di mode tra gli studenti e studiosi americani, ossia interni all’università, quanto a cambiamenti obiettivi avvenuti fuori dal mondo dell’università.
Vengono dal mondo del lavoro.
Il primo dipartimento di studi informatici nasceva solo 50 anni fa negli Stati Uniti. Ma già negli anni 80 la laurea in Computer Science veniva offerta in molte, se non in tutte le università americane. Secondo le statistiche più recenti, tra le 25 università che offrono i migliori dipartimenti di studi informatici del mondo, 14 sono americane, 3 sono britanniche, 2 svizzere, 2 hanno sede a Hong Kong e le altre 4 sono a Singapore, in Giappone, Australia, Canada.
I posti di lavoro per laureati in informatica continuano a crescere e secondo le previsioni continueranno a crescere. Altri campi in grande espansione sono le bioscienze e le neuroscienze, gli studi di economia e finanza.
Queste nuovissime scienze attraggono studenti che tradizionalmente avrebbero altrimenti scelto le Humanities?
Studenti e famiglie cercano di orientare le loro scelte alle possibilità di impiego, ovvero di successo economico dopo la laurea.
C’è quindi un rapporto strettissimo tra innovazione, mercato del lavoro e università.
La scelta dell’università avviene in modo utilitaristico…
Per comprendere questo stretto rapporto si deve guardare l’ambiente in cui i giovani americani crescono, la cultura e le abitudini in cui sono immersi.
I giovani americani cercano di esser indipendenti molto presto.
Se ne vanno a vivere da soli, sviluppano strategie per finanziare la loro indipendenza. Non si aspettano nulla dallo stato e poco o niente dalle loro famiglie.
Cercano invece di farsi ammettere nelle università più prestigiose. Questa è la loro prima grande ambizione.
È normale far domanda a 8-12 università e farsi ammettere a più di una università.
Sì, perché per entrare all’università si deve far domanda. Quelle che ricevono più domande sono anche quelle in cui è più difficili entrare.
Nel 2012 Harvard ha accettato solo il 5,6 % degli studenti che han fatto domanda. Questo 5,6% di studenti ammessi si laureerà nel 2016!
Ci sono università per tutti oppure…
Ci sono università di tutti i livelli anche se tutte le università cercano di mirare il più alto possibile.
L’atteggiamento generale è molto competitivo. Famiglie e studenti vogliono entrare al livello più alto perché sanno che è da quell’altezza che poi partiranno per la professione.
Le università americane sono di qualità anche perché sono molto care…
Le statali costano metà delle private. Ma metà sarebbe già moltissimo per le famiglie e gli studenti italiani.
Le tasse di un’università privata ammontano a circa 50 mila dollari/anno incluso vitto e alloggio.
Il costo delle università statali per gli studenti che vengono dallo stesso stato in cui si trova l’università è di 10 mila dollari/anno.
Se invece uno studente viene da fuori, il costo aumenta ed è di circa 25mila dollari/anno.
Anche qui, a queste cifre vanno poi aggiunte le spese di vitto e alloggio.
Una famiglia per laureare il proprio figlio in un’università statale deve affrontare un costo di 100 mila dollari per 4 anni di studio.
200 mila dollari se si tratta di collegi privati.
Sappiamo già dalla letteratura cinematografica che per pagare le tasse universitarie le famiglie iniziano a risparmiare dal momento in cui nasce loro un figlio.
Sì. E in America ci sono forme di risparmio e mutui studiati proprio a questo scopo: pagare l’università ai propri figli quando verrà il momento.
Per l’ammissione all’università, la commissione giudica in base a meriti accademici e curriculari e decide se ammettere o no uno studente alla cieca, a prescindere dalla provenienza e dalle condizioni economiche della sua famiglie. Poi la commissione passa tutto all’ufficio assistenza che in base al censo della famiglia (la famiglia deve provvedere ad inviare la propria dichiarazione dei redditi insieme alla domanda di ammissione del figlio) valuta che tipo di assistenza offrire.
In America, famiglie con reddito inferiore a 60 mila dollari possono avere assistenza totale all’università.
La competizione continua una volta entrati all’università…
Già entrarci è un fatto di competitività.
I voti sono importanti e da quei voti dipende il futuro professionale degli studenti.
Le istituzioni universitarie sono completamente in sintonia con gli studenti e le loro famiglie: tutti conoscono bene il valore della competitività che si applica sia al mondo universitario che a quello lavorativo.
Nella tradizione italiana si fa distinzione netta tra studio e lavoro.
Sì, mentre in America “work” è un’azione che compie sia chi lavora sia chi studia.
Gli studenti a 18/19 anni si organizzano per offrire servizi all’interno dell’università. Fanno la loro denuncia dei redditi, a meno che non siano inseriti in quella dei loro genitori. Cominciano molto presto a pagare le tasse sulle tasse universitarie e sui lavori che fanno per mantenere la loro indipendenza e i loro studi.
Ragazzi di vent’anni possono essere già attivi nel mercato azionario per mantenersi all’università. Non è quindi un caso che i campus abbiano visto nascere aziende ora note in tutto il mondo quali Google, Apple, Facebook.
Tutto è nato dalla grande, autentica, fresca voglia di competere con gli altri per raggiungere grandi traguardi e guadagnarsi da vivere.
Nelle università americane il desiderio, l’iniziativa, la creatività di pensare e realizzare nuove attività sono prassi comune in continuo fermento.
Attivissimi sono gli incontri con il mondo del lavoro, gli stage, i corsi di approfondimento, che vengono fatti durate l’estate.
Presa la laurea i giovani americani hanno già un ben preciso indirizzo lavorativo: sanno già cosa faranno, come e dove lo faranno.
Pochi tra coloro che appartengono a queste università rimangono disoccupati.
Pochi si dedicano all’insegnamento. L’università americana non produce molti studiosi!
Pochi sono coloro che si dedicano alle discipline umanistiche o scientifiche per la ricerca.
E la disoccupazione tra i laureati?
È molto bassa. Quasi tutti trovano lavoro.
Ma è da sottolineare che da parte loro c’è anche una grande flessibilità.
Non è strano che degli umanisti si diano al mondo della finanza o che gli scienziati passino alle organizzazioni filantropiche o al mondo della finanza.
C’è forte mobilità nel mondo del lavoro negli Stati Uniti?
È uno dei modi in cui si fa carriera! E non è un problema spostarsi.
L’idea di fare lo stesso lavoro per tutta la vita non è comune. Anzi, a volte fa inorridire.
Il principio è che per progredire bisogna cambiare: lavoro, residenza, abitudini, luoghi e amicizie.
Tanti anche i problemi, certo. Ma non c’è dubbio che tutto ciò sia di grande stimolo all’iniziativa individuale.
Molto presto il ragazzo viene abituato a caricarsi di responsabilità, ad accettare le sfide.
A 22/23 anni l’indipendenza finanziaria è abbastanza comune in America.
Il modello universitario americano è esportabile?
Ovunque, certo.
Ma non è una proposta praticabile in Italia.
I motivi sono evidenti.
Anche se la qualità del nostro sistema universitario sia dimostrata dal numero sempre crescente dell’impiego dei nostri ricercatori all’estero, c’è tuttavia lo sbarramento del PhD americano: per essere ammessi nelle università americane bisogna avere un PhD americano.
E i cervelli in fuga italiani?
I “cervelli italiani” sono in gran parte aspiranti ricercatori. Raramente, tuttavia, si integrano col sistema americano. Tendono a ricreare all’estero il modello italiano.